Il 20 gennaio 2014, al mio compleanno, mio fratello mi regalò un’edizione in doppia lingua de “Il grande Gatsby”. Lo lessi più di un anno dopo e rimasi molto colpito dal simbolo della ricerca di Gatsby: la luce verde in fondo al molo, simbolo dell’irraggiungibile ed ineffabile attrazione ricca di speranza che spingeva Gatsby a fare cose straordinarie pur di ricongiungersi con l’amata. Tanto che il sogno di Daisy, dell’amore stesso, doveva “essergli sembrato così vicino da non poterlo proprio mancare”.
Quanta forza c’è nell’amore? Infinita. Lo stato nascente che si crea nel processo di innamoramento sprigiona una continua propulsione a stupire, colpire, rendere l’amata/o parte della propria vita e, talora, come in Gatsby, a sentirsi all’altezza. Chi ha amato almeno una volta nella vita sa che quel sentimento sprigiona una straordinaria forza nella persona che ama, che ne rigenera gli interessi e i valori. Questo accade perché chi sceglie di condividersi per intero con l’altro lo rende parte della propria vita e della propria persona, senza nascondergli nulla.
Gatsby però offre anche un altro insegnamento: la forza dell’innamoramento è viva anche se il sentimento non è corrisposto ed è illusorio, purché sia idealizzato. In lui, il gioco misterioso dell’amore per Daisy è sembrato tanto meraviglioso da non riuscire a smettere di consacrarvi tutta una vita, anche se la donna amata non avrebbe mai modificato la propria, per lui. L’aver goduto dell’amore anche solo un istante (e che breve istante, tanto che nel romanzo è appena descritto!) lo ha reso diverso per sempre e ha condizionato il suo intero progetto di vita. La luce verde aldilà del molo è stato l’obiettivo cui ha orientato tutta la sua esistenza. Anche se Daisy, sulla tomba, finirà per non lasciargli nemmeno un fiore.
Gatsby guardava al “futuro orgasmico” in funzione di un sentimento passato per la donna perduta e mai dimenticata. Non sapeva che il suo sogno romantico – come ci dice lo stesso Fitzgerald – era “già alle spalle”; non capiva, perduto nei sentimenti, che il suo processo di crescita derivava da un sentimento unilaterale; e non comprendeva che la donna idealizzata non poteva ricambiarlo. Ma, sospinto e travolto dai sentimenti, agiva.
Credo sia la più grande conferma della forza propulsiva dell’amore.
P.S. Per questa ricetta, ho usato la tecnica scientifica spiegata da Dario Bressanini. Per la pasta, ho adoperato lo spaghetto del pastificio Mancini. Ne sto provando davvero tanti, ma questo, per l’avvolgente porosità e la ricchezza di amidi, secondo me per la cacio e pepe è il migliore.
Ingredienti (per 2)
Spaghetti (io, Mancini), 160 g
Pecorino romano dop (che faccia “la goccia”, ovvero non sia troppo salato), 80 g
Pepe nero di Jamaica, q. b.
Pimento, q. b.
Porro, 2 piccoli
Amido di riso (in alternativa, farina di riso o farina 00), q. b.
Olio di semi di girasole, q. b.
Procedimento
Portate a bollore una pentola di H20 e salatela.
Tagliate a julienne la parte bianca del porro per il lato lungo e asciugatelo con della carta assorbente. Passatelo nell’amido di riso (o, in alternativa, nella farina di riso o nella farina 00) e friggetelo in olio di girasole alla temperatura di 120 °C, finchè sarà croccante.
Fate asciugare la frittura su carta da cucina e tenete da parte.
Grattugiate il pecorino e versatelo in una ciotola di terracotta o di alluminio. Unite il pepe precedentemente tostato in padella e poi grattato al mulinello.
A tre quarti di cottura della pasta ho unito agli 80 g di pecorino a temperatura ambiente un pari peso di acqua bollente (Bressanini consiglia 25 g di acqua per 20 g di pecorino, ma spiega anche che la misura dipende dalla stagionatura del formaggio). Mescolate il tutto con una frusta. Con un termometro da cucina, vi renderete conto che la temperatura della miscela scenderà immediatamente a 40°C, una temperatura non sufficiente per sciogliere bene il grasso del pecorino e si formeranno dei grumi.
Scaldate dunque il pecorino a bagnomaria (banalmente, ponete il pentolino sull’acqua di cottura della pasta) fino a che la salsa raggiunga la temperatura di 55°C.
Alzate la pasta con un prendi-spaghetti (non scolatela, tenete l’acqua!) e mantecatela velocemente nella ciotola. L’emulsione sarà perfettamente cremosa.
Impiattate velocemente facendo un nido e guarnite con il porro fritto.
Meraviglioso tutto… <3 Buon Natale <3
Ma… è un regalo di Natale questo commento! Ciao Libera, bentornata e tanti auguri anche a te! 😊
E’ stato tutto merito di Paola <3 Io cercavo nel posto sbagliato. Un forte abbraccio e grazie per essere ritornato…
Quel posto non c’è più. Avevo anche provato a mandarti una mail, ma credo fosse ormai in disuso, essendo quella del sito. E perso il numero, nom riuscivo a contattarti. Ti avevo anche dedicato una ricetta. È la ricetta delle friselle.
Un abbraccione. E grazie di essere ritornata tu. Ancora tantissimi auguri
(Se hai ancora il mio numero, mi mandi un messaggio così risalvo il tuo?)
Ti manderò mail <3
Ricorda che anche la mia mail è cambiata. Usa quella de Il pomodorino confit. Se la mandi al sito precedente, non riesco più a leggerla
Tu non sai quante cose mi hai raccontato scrivendo questa ricetta! Te le dirò a voce. Grazie intanto della versione originale di un classico, e ancora tanti auguri!
Adesso mi senti un po’ in imbarazzo. E sono curioso di sentire cosa ti ha colpito 🙂
In attesa di risentirci (o di rivederci, magari per un’altra visita culturale), per quanto riguarda la ricetta, da quando ho scoperto il metodo Bressanini ho iniziato a farla sempre così. Viene cremosissima.
Ancora auguroni!
No no niente di imbarazzante, non mi permetterei mai! Hai visto la mia mail di due o tre giorni fa?
In realtà no. Adesso vado a leggerla. Scusa, ma apro raramente la casella di posta.